Spegnere i conflitti anziché cercare la verità: lo strano fine della “nuova” giustizia
GIOVANNI PASCUZZI
GIOVANNI PASCUZZI*
Il processo è, per definizione, il luogo dell’affermazione della giustizia nel caso concreto: accertata la verità dei fatti il giudice viene chiamato ad applicare la legge ad una specifica fattispecie.
In un saggio dal titolo “Il giudice e lo storico” ( Rivista di Diritto processuale, 1939, p. 105) Piero Calamandrei scriveva: «È comune tra i processualisti l’uso di espressioni che riavvicinano l’attività del giudice all’attività dello storico. Anche il giudice, come lo storico, è chiamato a indagare su fatti del passato e ad accertarne la verità; anche del giudice, come dello storico, si dice che non deve fare opera di fantasia ma opera di scelta e di ricostruzione su dati preesistenti. Nella storia e nel processo si parla di prove, di documenti, di testimonianze, di fonti e della loro critica».
Momento centrale del processo, quindi, è la ricerca della verità. Certo la verità che emerge dai fatti che si riesce a dimostrare ( la cosiddetta “verità processuale”), ma pur sempre la verità nei limiti del possibile: la sentenza dà torto e dà ragione, stabilisce il vero e il falso.
Da molti lustri a questa parte varie riforme della giustizia ( invocate molto spesso per ridurre l’estenuante durata dei procedimenti giurisdizionali) hanno introdotto modalità di definizione dei processi diverse dalla sentenza: si pensi al patteggiamento nel processo penale o alla mediazione obbligatoria nel processo civile. Queste procedure non mirano ad accertare ( nel modo più preciso possibile) fatti e responsabilità ma a porre fine in qualche modo ad un conflitto ( tra privati nel processo civile; tra stato e cittadino nel processo penale). Non mirano all’accertamento della verità, ma perseguono il raggiungimento di un accordo ( magari perché vedersi riconosciute almeno in parte le proprie pretese oggi è meglio di avere una sentenza totalmente favorevole chissà quando).
Questa evoluzione ha delle conseguenze importanti. Ad esempio, nella formazione degli avvocati occorre dar peso all’apprendimento non solo delle competenze necessarie ad esperire l’attività contenziosa, ma anche delle abilità proprie della negoziazione e della mediazione ( un tempo totalmente ignorate).
In ogni caso un dato sembra emergere: un’epoca da più parti definita come “l’era della post verità” si sta caratterizzando ( forse del tutto coerentemente) anche come “l’era della post verità processuale”. L’enfasi posta in maniera ossessiva sulla necessità di determinare esattamente la durata dei processi ha come contropartita, e una volta di più, lo scolorimento dell’interesse per la verità ( almeno di quella che agli umani è possibile stabilire).
Non so se dire se questo scenario sia migliore o peggiore: non so dare giudizi di valore.
Mi chiedo se l’era della post verità anche processuale sia una stagione feconda.
In ogni caso se la giustizia divorzia dalla ricerca della verità per concentrarsi sulla ricerca di un accordo perché non affidare le funzioni del ministero per la Giustizia al ministro per gli Affari sociali o per la coesione sociale?
* Ordinario di Diritto privato comparato Università di Trento