«Così il ddl penale nega l’appello per gli stranieri in difficoltà»
ERRICO NOVI
Difficile negare i tanti sforzi di modernizzare il processo contenuti nella riforma. «Difficile negarli anche perché i passi avanti compiuti rispetto al testo Bonafede sono evidenti e numerosi», nota Giovanna Ollà, consigliera Cnf che, nella massima istituzione dell’avvocatura, è anche coordinatrice della commissione Diritto penale. «Intanto è positivo che sia stato accantonato il fine processo mai, seppur tra alcune deroghe e con un meccanismo pieno di insidie come quello dell’improcedibilità. Ma a parte il superamento della norma sulla prescrizione voluta da Bonafede, dobbiamo ricordare per esempio l’estensione dei procedimenti che s’instaurano solo a querela, un modo corretto di rimettere il processo penale nella disponibilità delle parti. Altrettanto importante è la previsione di sanzioni sostitutive del carcere per pene fino a 4 anni», fa notare Ollà, «con accesso a lavori di pubblica utilità per i reati puniti fino a 3 anni, laddove tale espiazione è prevista, a normativa vigente, solo per la guida in stato d’ebbrezza e gli illeciti di competenza del giudice di pace». Ancora, ricorda la componente del Consiglio nazionale forense, «sono reali i miglioramenti nel penale telematico». Ma proprio perché il quadro d’insieme è apprezzabile, risalta una forzatura di cui finora si è parlato poco, e che riguarda la facoltà di impugnare in appello. All’articolo 7 del disegno di legge — che la Camera ha licenziato in via definitiva solo mercoledì scorso e di cui il Senato si occuperà a settembre — trova posto uno strano obbligo che rischia di impedire ai difensori d’ufficio molti ricorsi in secondo grado: «Con l’atto di impugnazione» , recita la norma voluta dalla ministra della Giustizia, deve essere depositata «a pena di inammissibilità» , una «dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio» . La misura ha sostituito una previsione, inserita l’anno scorso da Bonafede, secondo la quale il difensore avrebbe dovuto ottenere dall’assistito un nuovo specifico mandato per ricorrere in appello. Misura che già nell’autunno 2020, durante le audizioni alla Camera, proprio Ollà aveva definito «sostanzialmente offensiva verso gli avvocati». Come riportato nella relazione tecnica del ddl, il presupposto della norma veniva indicato in un presunto «abuso del diritto» da parte dei penalisti. Adesso si è rinunciato a un vincolo formale che riguardasse direttamente il difensore ma, come spiega Ollà al Dubbio, «il meccanismo fatto uscire dalla porta è di fatto rientrato dalla finestra. È vero che la dichiarazione o elezione di domicilio può essere trasmessa dall’imputato in autonomia, ma è anche vero che con un meccanismo del genere si produce sempre lo stesso effetto della previsione iniziale: vengono tagliati fuori molti appelli provenienti dai difensori d’ufficio. Viene esclusa dal diritto di difesa, e soprattutto dalla possibilità di rimediare a errori nelle condanne in primo grado, una notevolissima quantità di casi. Ci sono persone imputate che, colpevolmente o incolpevolmente, perdono il contatto con il difensore. A volte l’irreperibilità è una scelta compiuta da chi non ha pagato o pensa di non poter pagare il difensore. Ma se l’avvocato è nominato d’ufficio dallo Stato, dovrebbe prevalere oggettivamente il diritto a veder sanato un errore giudiziario. Così invece si taglia fuori un 30 per cento della popolazione imputata», osserva Ollà. «Non si ha idea di quanto numerosi siano i casi di persone accusate che non hanno fissa dimora, non sono reperibili, e sono il più delle volte stranieri con difficoltà di comunicazione».
La modifica trova posto all’articolo 7, comma 1 lettera a) della riforma penale. Secondo Ollà il paradosso è anche nel fatto che, secondo una delle previsioni caratterizzanti del ddl, «tutte le notifiche successive alla prima vengono indirizzate all’avvocato: e proprio considerato che il difensore, fin dalla fase preliminare, diventa suo malgrado notificatario di tutti gli atti rivolti all’imputato, è davvero strano che poi l’imputato debba inviare una dichiarazione o elezione di domicilio prima che il difensore stesso possa proporre appello. Ripeto: se lo Stato nomina un avvocato d’ufficio, la funzione a quel punto ha a che vedere con il diritto di difesa in termini di principio, non subordinabile alle condotte della persona accusata». Ma la consigliera Cnf ribadisce che «pur in presenza di simili forzature, è difficile scagliarsi contro la guardasigilli Marta Cartabia rispetto al contenuto generale della riforma: aveva interlocutori politici in conflitto tra loro, su molti aspetti ha dovuto fare sforzi di mediazione complicatissimi e alla fine ne viene fuori un ddl che fa compiere progressi alla disciplina processuale. In ogni caso, il giudizio va dato nell’insieme e con equilibrio».
GIOVANNA OLLÀ CONSIGLIERA CNF
SARA MINELLI